Rolling Acres Mall: un centro commerciale abbandonato in Ohio (immagine tratta dal libro di Seph Lawless “The Collapse of the American Shopping Mall“, acquistabile qui http://bit.ly/2veTfPa )

 

Si stima che dei 1200 centri commerciali al momento aperti negli Stati Uniti d’America, il 50% sarà chiuso entro il 2023.

 

50%, 1 su 2. La stima sembra incredibile ma è in linea con quanto sta succedendo negli USA a partire dalla fine del 2016, con tantissimi negozi che chiudono ad un ritmo mai visto prima, al punto che si è arrivati a coniare l’espressione “apocalisse del retail” per definire il fenomeno.

 

Più di 4000 negozi hanno già chiuso e moltissimi altri sono destinati a farlo da qui ai prossimi anni: la colpa? Viene attribuita al ridotto potere d’acquisto della classe media: sempre meno risorse a disposizione per gli acquisti, sempre più costi da affrontare per l’educazione, la salute e per la casa.

 

A questa riduzione del potere di spesa si somma un cambio di interessi e di gusti da parte dei millenial, sempre più pronti a cercare e comprare online dei prodotti che li aiutino a costruire la propria identità, a partire dall’abbigliamento dove si predilige sempre più uno stile personale, distintivo.

 

 

Così tante chiusure hanno un impatto non solo sulle persone che lavoravano in questi negozi ed il relativo indotto, ma anche sull’intero tessuto urbano, che si ritrova con delle vere e proprie cattedrali nel deserto il più delle volte difficilmente riqualificabili.

 

Lo scenario in cui un negoziante tradizionale oggi si trova ad operare è davvero complicato.

 

Se da una rapida ricerca in rete emerge che è possibile comprare il medesimo prodotto venduto nel negozio sottocasa ad un prezzo inferiore, magari con la possibilità di farselo recapitare dove si vuole in un paio d’ore o al più tardi 1 giorno, cosa può far prediligere il negozio?

 

Magari il negozio sottocasa ha un’alternativa ad un costo inferiore o un servizio extra, ma quanti negozianti oggi mettono a disposizione il proprio inventario online, per far sapere a chi è nelle vicinanze che cosa si può trovare una volta giunti in negozio?

 

Abbiamo quindi un forte squilibrio informativo che è un importante punto a sfavore dei negozianti tradizionali: pubblicano pochissime informazioni contrariamente agli ecommerce, che ne pubblicano davvero molte.

 

Oltre a questo, chi ha un negozio fisico subisce il fenomeno dello showrooming: le persone utilizzano il negozio per individuare il prodotto che ritengono più adeguato (ad esempio un paio di scarpe della giusta misura) e poi lo acquistano online, lasciando al negoziante i costi dello showroom senza la relativa quota parte di guadagni.

 

I negozianti che si lamentano dello showrooming dovranno però fare presto i conti con il diffondersi di soluzioni per la scansione del corpo come quelle proposte da Styku o Bodi.me (per citarne giusto un paio) che a tendere renderanno la visita in negozio superflua.

 

 

 

Il trend in atto può essere in parte mitigato con diversi accorgimenti.

 

Ad esempio, in linea con il desiderio di personalizzazione dei millenial, si possono offrire nel singolo negozio delle proposte specifiche, non acquistabili online o negli altri negozi.

 

Ancora, è possibile pubblicare online la reale disponibilità del punto vendita e attivare meccanismi di “price-match”, dando così modo a chi è nelle vicinanze di scegliere il negozio.

 

Si può poi trasformare il singolo negozio o il centro commerciale in un punto di ritiro per gli acquisti effettuati online, ottimizzando i costi di logistica ed offrendo in questo modo un’occasione in più per le persone di andarci.

 

Un’ulteriore idea? Installare dei parcel locker per la gestione dei resi da parte dei clienti, che potrebbero evitare la trafila di re-impacchettare quanto da restituire, attendere il corriere, etc.

 

Il locker WIB progettato e realizzato per Coop

 

Un’occasione che i marchi hanno per stare vicino ai propri clienti (potenziali e già acquisiti) è quella di ricorrere a dei veri e propri smart store automatici, che rappresentano in un certo senso un’evoluzione degli shop in shop. I vantaggi offerti sono diversi:

 

  1. Creano continuità di percezione del brand, offrendo un punto di visibilità e contatto supplementare (anche grazie a display per il digital signage, hotspot wi-fi ed altre soluzioni tecniche).

  2. Non hanno i costi di un negozio tradizionale, consentendo a parità di investimento di essere più capillari.

  3. Permettono di essere vicini al consumatore nel momento in cui l’impulso d’acquisto è più forte: ricordiamoci che non in tutte le città ci sono le consegne in 1 ora e anche in questo caso la selezione resta limitata, l’esperienza più comune è la consegna in 1 o 2 giorni.

  4. La disponibilità presso il singolo store può essere facilmente integrata con il sito del marchio o la sua app, ma anche siti esterni di comparazione prezzi e altri punti di passaggio online ad alta visibilità

  5. Permettono di estendere gli orari operativi: ad esempio i supermercati possono arrivare a coprire le 24 ore (non su tutte le referenze, certo, ma assicurando comunque un servizio aggiuntivo)

 

Grazie alle connessioni ad internet sempre più veloci e alla diffusione degli smartphone i marchi che lo desiderano possono comunque offrire il contatto umano di un commesso attraverso soluzioni di videoconferenza, aiutando le persone nelle loro esigenze ed offrendo così un’esperienza di contatto ancora più positiva.

 

Gli “automated store” non sono una risposta assoluta ai cambiamenti in corso, ma possono essere una risorsa importante a disposizione di marchi e negozianti.

 

Affrontare l’apocalisse del retail passa attraverso l’individuazione degli aspetti chiave della relazione con i clienti in tutti i suoi aspetti, ottimizzandone i costi e massimizzando il valore di ogni punto e momento di contatto, riconoscendo il cambio di aspettative da parte dei clienti (che sempre di più vogliono vivere un’esperienza d’acquisto senza soluzione di continuità) e mettendosi nelle condizioni di soddisfarli.

 

Anche Brendan Witcher, capo analista di Forrester, sottolinea come tra i motivi della crisi dei grandi retailer negli Stati Uniti ci sia l’incapacità di soddisfare le aspettative dei clienti non curando a sufficienza la qualità dell’esperienza di acquista.

 

Recuperare le risorse per gestire al meglio questo cambiamento non è facile, anche se l’automazione dei processi produttivi sembra offrire ottime prospettive.

 

Adidas ad esempio sta realizzando nuove linee produttive ad altissima automazione, in grado di assicurare la produzione di circa 800mila T-shirt al giorno con un costo di manodopera trascurabile: in questo caso il risparmio ottenuto in produzione potrebbe aiutare con la riqualificazione della rete distributiva assicurando una maggiore capillarità.

 

La scelta di Adidas potrebbe non essere adeguata per altre realtà, ma resta una certezza di fondo: a fronte di cambiamenti così radicali, stare fermi e fare “come si è sempre fatto” è probabilmente la peggior scelta possibile.